Chernobyl

Giorgia Olivieri
10 min readJul 18, 2017

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Di domenica a Corinaldo, mia nonna con il suo solito fazzoletto in testa si lamenta di fronte alla capanna di che cosa mangeranno le galline. È questo il primo ricordo che ho di Chernobyl, una delle facce dell’impatto del disastro nucleare del 26 aprile del 1986 sulla vita quotidiana di noi italiani. Qualche anno dopo ci sono stati quei bambini secchi secchi biondi biondi con i capelli corti corti che venivano al mare da noi per respirare lo iodio. E infine mia madre, che ogni volta che citava la sua disfunzione alla tiroide, diceva “vedi, questi sono i regali di Chernobyl”.
Prima di qualche mese fa io non sapevo manco che quel nome così ricorrente nel nostro vocabolario comune fosse una località dell’Ucraina perché, se hai fatto le medie prima del 1990, quella ancora era la Russia.
Mai avrei pensato di visitare Chernobyl.

Da qualche anno con un gruppo di amici ho preso l’abitudine di andare all’Eurovision. Ogni volta questo festival si tiene in una città diversa perché ospita chi ha vinto l’edizione precedente. Nel 2016, avendo vinto la cantante ucraina Jamala, era sicuro che l’Eurovision si sarebbe tenuto nel suo paese ma ci è voluto del tempo prima che l’organizzazione decidesse dove. Alcuni di noi speravano a Odessa, perché soprattutto Marta ed io avremmo voluto vedere la famosa scalinata della Corazzata Potëmkin.
Alla fine ha vinto Kiev, la capitale. Confesso che fino all’ultimo sono stata indecisa sul da farsi finché Eddy, uno dei nostri amici della compagnia di giro eurovisiva oltre a essere persona informata sui fatti, ci dice che ci sono dei tour organizzati che vanno in quel luogo tristemente mitologico.
Non ci metto molto a convincere Guido a seguirmi. Chissà che foto si possono scattare in quel deserto fatiscente. Cominciamo quindi a documentarci, Guido di più. Per un periodo lui fa le tre tutte le notti per vedersi speciali di Quark con Piero Angela in montgomery e mascherina, film complottistici, video su Youtube e servizi giornalistici italiani alquanto allarmisti. Prendiamo in prestito in biblioteca il libro “Confessioni di un reporter” di Igor Kostin, il primo fotografo ad aver testimoniato la tragedia, soprattutto umana, di quel territorio. E anche “Benvenuti a Chernobyl. E altre avventure nei luoghi più inquinati del mondo” del giornalista Andrew Blackwell che, rispetto ai colleghi italiani, riesce a rendere più lieve il racconto della visita in quello che è diventato di fatto un luogo turistico.

Siamo andati là sapendo molto, non tutto, imparanoiati al punto giusto sull’abbigliamento da indossare. Quando ci siamo trovati al punto di incontro del nostro tour di fronte al Kozatskiy hotel a Maidan Nezalezhnosti, la piazza principale di Kiev, noi eravamo sicuramente i più buffi. Ci abbiamo messo settimane a decidere l’outfit che altro non era che un assemblaggio casuale di abiti che avremmo buttato nell’immondizia, degni neanche di essere devoluti a chi ne poteva aver bisogno, e sciarpe e cappelli acquistati a poche grivnie in un outlet della città. Con noi gente di tutti i tipi. Siamo smistati a seconda delle nostre prenotazioni. Ci controllano i documenti e ci caricano su questi pullman non proprio freschi di fabbrica.
Si parte.

Dov’è che stiamo andando? Perché lo facciamo?

Il tempo è grigio ed è pure freddo e già l’uscita dalla città comincia a diventare triste. La strada che da Kiev porta nella zona di alienazione di Chernobyl, aveva un’aria familiare. Mi sembrava un’enorme Strada Bruciata. C’era anche il boschetto, teatro di una delle ultime pisciate consentite prima di arrivare a destinazione, quello dopo poco la Scac. Lungo tutto il tragitto, mentre guardavo quella distesa di nulla, mi sembrava di vederle le code di pullman dei Bucci russi carichi di persone a cui era stato detto che avevano tre ore di tempo per andarsene di casa, il tempo di fare una valigia con le cose più importanti, che tanto da lì a poco sarebbero tornati a prendere il resto. Invece per loro, ignari di quello che era accaduto, sarebbe cominciato l’inferno. Inferno che per molti, a causa delle malattie, non sarebbe durato poi così a lungo, giusto il tempo di spegnersi dolorosamente, anzitempo e senza colpe.

Il tour vero e proprio inizia con la visita a una chiesetta celeste. Siamo un po’ storditi, la tragedia non è ancora tangibile anche se le guide ci ricordano di non toccare nulla. Passiamo rapidamente alla prossima tappa, quello che resta di un villaggio e ci intrufoliamo dentro casette colorate e pericolanti. Non chiediamo permesso, siamo autorizzati.
La prima casetta è una scuola.
La natura si è impossessata di tutto e sembra rigogliosa. Ovunque disseminati oggetti che regalano orrore laddove ce ne fosse bisogno. Le bamboline sparse qua e là disturbano perché non sono necessarie così come gli spartiti sui tavoli e le scarpette infilate nei letti di ferro. Questi oggetti sono magnetici per obiettivi e telefoni, impossibile resistere allo scatto.
In quei primi momenti, mentre sto attenta a evitare il muschio altamente radioattivo, mi viene in mente il Museo per la Memoria di Ustica di Bologna. Boltanski, l’artista che ne ha curato un’installazione permanente, ha chiuso in enormi casse nere tutti gli effetti personali delle vittime della strage. Per proteggerle dallo sguardo morboso della gente. Avrei voluto vederlo anch’io dal vero quello zoccoletto piegato ritratto dappertutto quando si parla della strage ma, mentre in me montava la curiosità, mi rendevo conto che era giusto così, quell’intimità andava protetta.
Cosa che non avviene a Chernobyl dove tutto, in certi punti, diventa una foto ricordo. Dove ogni casetta bassa e colorata contiene il dramma di chi ha dovuto lasciarla in tre ore. Quelle ancora in piedi poi, perché il terreno che calpestiamo probabilmente custodisce il resto delle abitazioni, spianate con le ruspe poco dopo il disastro, seppellite nel tentativo di contenere i danni delle radiazioni.

Ancora un breve tragitto con il pullman.
Il reattore 4 è là.
Lui sì che è protetto. Un sarcofago scintillante — costruito anche con la collaborazione di un’azienda italiana — ne copre le sembianze. È circondato da pace, silenzio e un fiume. Lo guardiamo da lontano, con soggezione perché non sembra così pericoloso come realmente è. Lì, in mezzo al nulla, a me torna in mente la Bruciata, quando la macchina a un certo punto incontra Valli Zabban Emulsione Bituminose, quello stabilimento in mezzo alla campagna dove da piccola credevo imbottigliassero il latte.
Che strani giri fanno i ricordi, si infilano nella macchina di mio padre diretta a Corinaldo, come ogni domenica fino alla primavera del 1992, quando si è interrotta la nostra vita insieme.
Con il pullman, dopo le foto di rito all’impianto nucleare più famoso del mondo, saliamo di nuovo sul pullman e circumnavighiamo lo stabilimento. Arriviamo all’ingresso, siamo vicini alla celebrità, molto vicini. C’è un viavai di lavoratori che entra e esce, ma guai a fotografarli. La guida ci ammonisce con severità e mi afferra per un braccio quando mi distraggo per riprendere un cane. Le foto si possono fare ma in un perimetro definito davanti al monumento alla memoria di Chernobyl e alle sue vittime. Ci spiega che quel luogo è ancora molto pericoloso, sarebbe pericoloso offrire ai terroristi troppi elementi su un potenziale obiettivo sensibile.

Da lì non andiamo molto lontano, diretti a Pripyat. Il pullman si ferma davanti alla scritta in cirillico che dà il nome al luogo. Dietro di noi un bivio e un cartellone. L’aria è polverosa a causa di un leggero venticello che muove la foresta di pioppi e betulle immersa in un silenzio irreale. Sembra la sigla di Twin Peaks.
Questa città residenziale costruita per i lavoratori della centrale nucleare è popolata da enormi palazzoni. Disabitati da più di trent’anni, sono gonfi alla base e sembrano stanchi di rimanere in piedi. La guida qui sembra un agente immobiliare, pare voglia venderci qualcosa. È bravo a farci immaginare il comfort di questa specie di Milano 2. Anzi, a me che sono di Senigallia, Pripyat ha ricordato le Saline prima ancora che inaugurasse la Coop.

Eccoli lì di nuovo i ricordi di infanzia fuoriuscire in libertà. Mi è tornata in mente quella volta in cui sono stata per la prima volta in quel quartiere, dalla parte opposta in cui vivevamo noi. Sarà che da bambini non si ha la giusta percezione del tempo e delle distanze ma nella mia mente in quell’occasione fu come andare a New York.
Era per andare al Luna Park.
Di fronte a noi il parco giochi di Pripyat. La ruota panoramica, l’autoscontro, il calcinculo. Ti sembra di sentirli i bambini che ci giocano perché tutto deve ammantarsi di ricordo lacrimoso quando si legge di disastri, a costo di reinventare la realtà. Ma purtroppo o per fortuna, quelle macchinine e quei seggiolini di bambini non ne hanno mai visti. Quel parco dei divertimenti sarebbe stato inaugurato il 1 maggio del 1986 ma la città è stata evacuata qualche giorno prima. Quel parco è consegnato alla storia come intrattenimento per turisti e forse, da questo punto di vista, è meglio immaginarlo così.

Mentre tutti scattano selfie, a noi non viene neanche più voglia di fare foto. Tanto c’è poco che non può essere visto sul web. L’aria non sembra pericolosa, non pensi di respirare nel punto più radioattivo della terra se non fosse che la polvere secca terribilmente la pelle e le labbra.

È tempo di risalire sul pullman che prosegue il suo giro e si ferma in mezzo al verde della boscaglia che lambisce l’accesso a una zona militare. Siamo arrivati alla Duga-3. Lì c’è un adorabile cagnolino ad aspettarci. Scodinzola allegro, ci segue ma nessuno lo accarezza: il pelo trattiene le radiazioni. Nel libro di Kostin si legge che a un certo punto cani e gatti sono stati uccisi tutti proprio per questo motivo. Quello scenario, già inquietante di suo, era diventato un cimitero fatto anche di animali domestici. Da quando sono diventata gattara queste storie mi distruggono. Nella mail di conferma del tour c’era scritto che, se uno voleva, poteva portarsi dietro del cibo per nutrire i cani randagi. Io ho chiesto se potevo portare cibo per i gatti e mi hanno detto di sì, ma che i felini, essendo più indipendenti, generalmente si facevano i fatti loro. Per tutto il tour io ho cercato i gatti per dar loro da mangiare ma di questi, in effetti, neanche l’ombra. Ho anche pensato di sbolognare le scatolette a quei cani lì ma non mi sono permessa di prendere iniziative. Visto mai che quei cani, oltre che nascere e morire Chernobyl in mezzo a militari senza espressione, siano anche delicati di stomaco. Bum Bum il cagnolino simpatico e carino ci segue fino a quella costruzione imponente e insensata che appoggia su una sabbia bianca e fina che altro che la spiaggia “di velluto”. Nonostante la bocca asciutta e serrata, sento che i denti schiacciano un granello di sabbia. In quel momento mi sono immaginata morire di leucemia in un letto d’ospedale e mio padre che da piccola mi diceva sempre “se te fai male, te ce meno sopra” quando facevo cose rischiose.

Siamo affamati, sono quasi le 3. Quando abbiamo prenotato il tour con lunch included Guido disse col cazzo che magno a Chernobyl. Saranno state le radiazioni ma quella bistecchina di maiale che abbiamo sbranato in quella specie di rifugio per turisti nucleari era tenera e squisita accompagnata da un’insalatina che, ironia della sorte, era tra i cibi banditi in quella primavera del 1986. Ma, rassicurano gli organizzatori, il cibo arriva ogni giorno da un altrove non meglio specificato. E noi ci fidiamo.

Contando anche queste spicce cameriere ucraine, sono circa 300 le persone che, con le dovute cautele, lavorano in quest’area. A Pripyat, ho visto anche diverse donne. Indossavano il fazzoletto sulla testa come mia nonna, alcune camminavano appesantite dalle sporte sotto braccio, altre conversavano sul ciglio della strada come se fossero in qualunque altro luogo del mondo. Guardandole dal finestrino del pullman mi sono chiesta quale fosse la paga per il loro impiego, se non era meglio venire in Italia a fare le badanti e se conoscevano la felicità. Mentre loro rimangono, noi con la pancia piena torniamo alla volta di Kiev verso la nostra di normalità.

Prima di essere sottoposti al controllo delle radiazioni passando attraverso quelle macchinette che sembrano l’ennesima attrazione turistica, ci fermiamo davanti alla scritta Chernobyl. Per qualcuno sarà l’ultimo selfie di questa avventura, l’ultima cartolina spedita a parenti e amici su Whatsapp noncuranti, forse, che ci stavamo lasciando alle spalle l’area più contaminata del mondo e che rimarrà tale per altre decine di migliaia di anni. “Speriamo di rivedervi presto magari per visitare Chernobyl in altre stagioni” ci dice la guida mentre ci saluta. Difficile, penso, che qualcuno di quelli che è con noi tornerà. Lo smartphone è pieno zeppo di foto. In fondo quel grigio che abbiamo incontrato era perfetto per l’idea che ognuno di noi aveva del luogo. E in fondo, penso che una volta nella vita Chernobyl possa bastare.

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Giorgia Olivieri

Giornalista, scrive quello che vede come se fosse al bancone del bar. Marchigiana, vive a Bologna da troppo tempo.