L’alluvione e le cose

Giorgia Olivieri
7 min readOct 15, 2022
Parete di ricordi e fango di Guido Calamosca
«Parete di ricordi e fango» di Guido Calamosca

«Vedi quella punta, lassù? È un albero di Natale. È pieno di alberi di Natale in mezzo al fango».

A pochi giorni dall’alluvione che la sera del 15 settembre ha colpito Senigallia e i paesi della Valle del Misa, ho visitato la discarica allestita in uno spazio nei pressi dell’uscita dell’autostrada. L’ho fatto in punta di piedi mentre camminavo sul fondo scivoloso con un paio i stivali da pioggia. Piccola in mezzo alle enormi montagne di rifiuti, stavo entrando nell’intimità dei miei concittadini e mi sentivo in colpa sapendo che le mie cose erano salve.

La mia catastrofe personale non è stata generata da un fenomeno naturale ma so benissimo cosa vuol dire svuotare una casa. Mettere le mani tra i ricordi. Ascoltare le vibrazioni degli oggetti. Accompagnarli nell’oscurità di un sacco nero. Sono stata una privilegiata però io rispetto alle vittime dell’alluvione perché ho avuto un po’ più di tempo per compiere queste operazioni. Soprattutto ho potuto scegliere cosa buttare e cosa salvare.
Il fango non aveva avvolto con la sua forza micidiale i pezzi della mia vita vissuta sola o in compagnia dei miei affetti.

La casa dove abitava mia madre era in affitto, per questo avevo premura di restituirla. Una questione di soldi. Molti orfani con casa di proprietà possono rimandare quello sgombero emotivo ma a volte la fortuna di possedere quattro mura e un tetto coincide con un procrastinare eterno e un fardello piantato sullo sterno.
Quello almeno io non ce l’ho più.

Liberare una casa ha anche i suoi aspetti positivi. La selezione ha in sé una dolcezza che rende più lieve lo strazio del momento. Ci si può sentire finalmente sollevati nel lanciare nel secchio i libri delle medie e si sorride molto quando si pesca una foto, una cartolina, un vestito o un cucchiaio che rimandano a un istante che stava lì, addormentato nella memoria.
Il fango invece si infila dappertutto, ti annulla le emozioni perché quando ti sommerge, non ti dà nemmeno il tempo di piangere.
Dello «sgombro» (come ho visto scritto spesso a Senigallia) di casa di mia madre ho salvato forse troppe cose ma non ho potuto fare altrimenti. Anzi, ho avuto la fortuna di poterlo fare.

Quest’estate ho fatto un giro in mezzo alle mie cianfrusaglie chiuse in un garage e scartabellando ho trovato gli abitini che abbiamo indossato mia sorella ed io da neonate. Mi ero ripromessa di prenderli, di lavarli e di riporre il piccolo guardaroba in una scatola con la canfora per allungarne la sopravvivenza. Il mio annuncio però non ha avuto un seguito, c’è sempre il lavoro di mezzo, tanta pigrizia, gli scambi delle chiavi.

Quando però sono cominciati ad arrivare i video della piena e, da un rapido controllo, le persone a me care non rischiavano grosso, ho cominciato a pensare ai vestitini di quando ero piccola e alla pigrizia, al lavoro e allo scambio delle chiavi. Ho chiesto a un’amica se poteva buttare un occhio in caso capitasse lì davanti ma il garage in questione è sì vicino al fiume ma lo salva una micro-salita.
Mentre il fango intorno seminava distruzione aggredendo buona parte di case e di negozi e di abitazioni di Senigallia, la salitina aveva graziato il mio zaino Invicta del liceo, i doposcì di mia madre, il palco di Barbie Rock Star, Tesori d’Italia di Selezione, i libri di scuola, alcune bottiglie di Vecchia Romagna da collezione, i pupini del presepio di coccio del secolo scorso, la fonovaligia da provare ad aggiustare.
E i vestitini di quando eravamo bimbe.

Io l’alluvione non l’ho mai vissuta. Nel 1976 ero nella pancia di mia madre e nel 2014 la zona in cui abitava mia madre non era stata colpita. Quel tipo di fango l’ho visto per la prima volta quest’anno e non sapevo quanto potesse essere tentacolare mentre ti prende i piedi e non te li lascia più. Figuriamoci sulla carta che c’era nell’edicola che presa che ha fatto, sui giocattoli di stoffa di quel bel negozio verso il mare, nel bar dove bevo il caffè, nel locale in cui mangio la piadina o nella rosticceria dove mi servo quando non so cosa mangiare.

Non voglio neanche parlare in questa sede dei danni dell’alluvione quelli veri, delle persone che sono morte, di quelle che hanno perso la casa o il mezzo con cui andavano a lavorare pagato con fatica. Mi soffermo su quel dolore strisciante di aver dovuto rinunciare ai ricordi e alla gioia di riscoprirli.

Nel 2014 qualcuno mi aveva detto che nonostante i danni subiti, quello che l’alluvione gli aveva tolto era l’odore dai cappotti della madre che ogni tanto andava ad annusare. Anche se salvi il cappotto in tintoria, lo spirito di chi hai voluto bene sparisce con la forza di un lavaggio a secco. Quando non hai più un genitore, o qualcuno caro, ferisce sapere che delle videocassette che avevi in garage non girerà più il nastro anche se i videoregistratori si sono estinti da anni. Se qualcosa a cui tieni è in cantina in uno scatolone, sai che c’è e questo ti basta, anche se non lo rivedrai mai più.

Non posso neanche immaginare cosa si prova a buttare via le fotografie. Mia madre ne aveva una quantità smisurata e anche la mia infanzia è stata molto ben documentata. Quelle foto per me sono tra le cose più importanti che ho. Mentre son qua che scrivo e mi figuro l’idea di dovermene separare, sto male.

Quando siamo passate da una casa all’altra nel 1999, mia madre ha avuto bisogno di spazio perché tutte le cose che erano nella vecchia abitazione non ci stavano in quella nuova. Trovò un accordo con un tizio che gliele avrebbe tenute in una qualche cantina. Ovviamente non c’era nulla di necessario ma erano cose parcheggiate lì che avrei potuto custodire io un giorno o forse buttare, chissà.
Mi ricordo ancora il giorno in cui mamma mi telefonò dicendo che aveva saputo che quel posto era stato sgomberato e tutta la roba che c’era non si sapeva più che fine avesse fatto.
«C’era anche il letto di ferro» mi disse sapendo che quella per me sarebbe stata una coltellata. Lo dicevo fin da piccola che quel letto alto, antico, forse anche scomodo, lo avrei voluto per me. In quel repulisti finirono anche i jeans rossi, il bomber, la camicia coi maiali, il vestito lungo rosso a fiori bianchi con le maniche a palloncino. Da anni i corsi e i ricorsi della moda mi ricordano tutto quello che è scomparso chissà dove insieme al giornalino delle elementari Qui Quo Qua, siamo quelli della III A nel quale avevo anche un qualche ruolo di responsabilità e un’infinità di piccole cose che quando le ricordo mi procurano ancora una certa stizza nel saperle perdute.

Nelle montagne di rifiuti che ho visto nella discarica allestita in tempi record (e dismessa con tempi altrettanto rapidi) per far fronte all’emergenza c’era tutto questo e anche di più. Il fango copriva le cose ma non riusciva a nascondere il dolore di chi ha dovuto gettare via tutto. Materassi, passeggini, televisioni al plasma, biciclette, tovaglie, divani, armadi, costumi da bagno, quaderni, libri.
E tante valigie. Tra i cumuli ogni tanto spuntavano le rotelline dei trolley, una patta colorata, un manico.
Una vacanza goduta.

«Vedi i fili che volano quando la roba viene messa nel trituratore? Quelle sono le luci di Natale».

La roba di Natale vive la sua magia per un mesetto. Poi passa giustamente il resto dell’anno in letargo in garage o in cantina. Verso fine novembre riemerge e le famiglie si divertono a arredare casa con quella paccottiglia, consapevolmente tale, acquistata nel corso degli anni che magari mescolano con qualche cimelio sopravvissuto alla furia del tempo. Le lucine sono passate dall’avere la presa ad andare a pile, le palline te le tirano dietro anche al discount e gli alberi sono tutti di plastica. Chi se ne frega se quell’armamentario arriva dalla Cina: quella è la roba di Natale.

Quello che mi turbato della visita alla discarica era constatare che il fango, oltre alle cose, con la piena si era preso un sacco di momenti felici. L’attesa dei regali dei bambini la notte della vigilia, la voglia di andare a scoprire il mondo, una settimana bianca e un schermo in cui godersi una bella serie di Netflix.

Siamo attaccati a un sacco di roba terrena, affidiamo agli oggetti i nostri sentimenti più puri anche se non se li meritano. Chi poi è cresciuto prima dell’avvento della cultura usa-e-getta pensa sempre che tutto possa servire di nuovo, anche se il più delle volte questa è una bugia che ci raccontiamo. Di fronte a cicloni emotivi di questo tipo siamo tutti come quegli innamorati che dicono che faranno basta con le relazioni che poi se finiscono, si soffre troppo. La società contemporanea ci tende una mano e ti serve l’obsolescenza programmata, le foto in digitale, il Kindle, Spotify su un piatto d’argento. Diventa immateriale ciò che aveva un’anima ma che spesso si può salvare con un backup.
Se non tocchi più nulla, niente può essere portato via con la piena.
Nei confronti degli oggetti dovremmo diventare tutti anaffettivi e viverli per quello che sono: cose.

A parole siamo tutti bravi finché non arriva l’alluvione e ti porta via molto, se non tutto. Si sopravvive, certo, senza i propri ricordi materiali. Ma saperli infangati prima e poi smaltiti come rifiuti, questo sì, fa sanguinare il cuore.

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Giorgia Olivieri

Giornalista, scrive quello che vede come se fosse al bancone del bar. Marchigiana, vive a Bologna da troppo tempo.